Per un bel pezzo si portò a spasso una maschera di gesso schiacciata sulla faccia, mangiando con una cannuccia, ma era vivo e continuò anche a dipingere esponendo qui e là senza un progetto preciso. Avevo visto alcune sue cose in una manifestazione organizzata da Pino Mantovani in un teatro: a me piaceva quel suo mondo sognante e incongruo di presentare il mondo. Quando ad un certo punto piantò tutto ci rimasi male, trovavo che mi sarebbe mancato qualcosa. A questo punto, per quasi un anno, Fabio si occupa di politica culturale con un ente, l’ENDAS. Lavora nelle vecchie stalle di una villa sabauda, mettendo in opera le attività più strane: Kiudo, Tai Chi, danza occitana, ma anche laboratori di pittura, di musica e quant’altro, quindi, ex abrupto, scompare, alcuni lo credono rinchiuso in eremo, altri in galera. Io lo ritrovo l’anno seguente in montagna. Come dicevo fa pubblicità, ma non gli piace, pensa ai libri con la frase di un certo Hood, l’illustratore imbarcato ne la “La scoperta della lentezza”, di Sten Nadoly: «Io non distruggo nulla, non vorrei neppure lasciar traccia. Tutt’al più qualche illustrazione». I libri, rendono meno, ma la cosa gli sembra giusta. Anche in questo lo trovavo sprecato, perché aveva frequentato l’Albertina con Francesco Casorati e si era licenziato con una tesi di sociologia dell’arte, di cui allora a malapena si parlava. Se avesse seguito la sua formazione sarebbe stato un bravo pittore, ma di fatto aveva sempre messo il percorso universitario in secondo piano, perché fin dai primi anni del liceo aveva soprattutto lavorato, prima a “bottega”, poi aveva fatto di tutto: insegnato nuoto, disegnato in uno studio di architettura, organizzato viaggi per ragazzi, insegnato disegno. Sapevo che era stato anche imbarcato su una bagnarola e aveva viaggiato come “roady” nei tour musicali. Aveva persino scaricato cassette ai mercati generali e insegnato in una scuola elementare. Ma per quanto l’università fosse solo al secondo posto nelle sue attività, appena finita l’accademia, si iscrive a filosofia e dopo un anno passa alla facoltà teologica. Credo che tra accademia e teologia abbia dato ben più di cinquanta esami. Diventa domenicano, d’altro canto essere cattolici, nell’ambiente in cui viveva, era una pessima cosa e a lui andava a pennello. Discute una tesi sulla teologia dei miracoli nei vangeli sinottici con Francesco Mosetto, poi rettore a Gerusalemme, e con Oreste Aime. Per vivere fa editoria e dipinge soggetti religiosi. Ho trovato in un suo portfolio, degli anni novanta, alcuni tipi per i quali ha pubblicato, sono: “Utet”, “Principato”, “Petrini”, “Paoline”, “Elle di ci”, “San Paolo”, “Edisco”, e poi “La Stampa”, “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Il Sabato”, “Tandem”, “Pagine Gialle”, “Tutto città”, “La voce del popolo”, i comuni di “Torino”, “Collegno”, “Pistoia”, “Biella” e ancora “La Caritas”, l’ordine “Domenicano”, “Francescano”, il “Cottolengo”, “Missionari della consolata”, le edizioni “Contro città”, il “Collettivo 3H”, “Papillon”, “Lions” e tanti altri che forse non ricorda nemmeno lui.